Gli incontri con i medici sulla prevenzione e sugli stili di vita; le domande dei ragazzi che interpellano gli educatori

«Che dovremmo fare prof?». Lo spazio della scuola e dell’educazione

Questo articolo fa parte della rubrica quindicinale tenuta dal prof. Roberto Contu su RomaSette. A questo link la serie completa: http://www.romasette.it/argomenti/quindiciventi/

Una di queste mattine ho partecipato con una mia classe a un incontro formativo sulla prevenzione di malattie gravi a partire dalla scelta di pratiche sane di vita: non fumare, non bere, scegliere una giusta alimentazione, fare attività fisica. I relatori previsti erano tutti medici e volontari di una meritevole associazione. Un anno prima avevo avuto modo di assistere allo stesso incontro con gli stessi esperti e li avevo trovati preparati, chiari nell’esporre e, cosa rara in questo genere di iniziative, capaci di reggere l’urto di un pubblico difficile come quello composto da tanti studenti in una aula magna, durante l’orario scolastico.

Accompagno i miei ragazzi, mi siedo con loro, sono fiducioso sul buon esito dell’incontro, fin dalle prime battute capisco che lo svolgimento sarà lo stesso dell’anno precedente. Dopo la presentazione dell’associazione e della mission fatta dal responsabile, prende il microfono un medico, si presenta e inizia a parlare prima di diagnosi precoce e poi in modo approfondito di sane pratiche di vita come forma primaria di prevenzione. A quel punto però succede qualcosa. I miei ragazzi, silenziosi e attenti fino a quel momento, iniziano a diventare irrequieti a darsi di gomito, a ridacchiare. Il motivo è facilmente intuibile. Il medico sta parlando loro dei danni seri dell’alcool e del fumo. Niente di nuovo, uno scenario visto mille volte e, in fondo, nelle cose: l’adulto che racconta e spiega i rischi della vita, l’adolescente che si oppone, carezzato e rassicurato dall’identità stessa di chi per età riconosce a sé il diritto di trasgredire.

Quando però il brusìo si fa eccessivo mi trovo costretto a intervenire con due alunni davanti a me che stanno esagerando. Lo faccio in modo ingenuamente facile, riprendendo uno dei due ragazzi, problematico ma a me particolarmente caro: «Piantala», gli dico sottovoce con un accenno di tono scherzoso; «ascolta che ti fa bene, che lo so che di sabato sera poi ti riportano a casa per come sei conciato». Lui mi guarda, si fa serio. «È vero prof», mi risponde: «ma che dovrei fare – aggiunge -, ma che cosa dovremmo fare oggi noi ragazzi prof?». E si gira.

Io mi appoggio di nuovo e d’istinto allo schienale della sedia, riprendo ad ascoltare. Cerco di risintonizzarmi sul medico ma a quel punto la frequenza d’onda è davvero cambiata. Per quanto il discorso sia quello di prima, inizio a sentire l’insufficienza e l’insignificanza per i miei ragazzi di quelle importanti informazioni. Le parole sono le stesse ma io sono cambiato. Capisco che la risposta del mio ragazzo per un attimo mi ha dato le sue orecchie e mi rendo brutalmente conto di come siano orecchie assolutamente indisposte a quei messaggi che a questo punto suonano come unicamente censori e sterilmente allarmistici.

A un certo punto il medico pronuncia l’espressione «rischio obesità». La mia parte razionale segue e approva il senso del discorso ma il mio udito continua a sentire soltanto il ridacchiare dei ragazzi che guardano al ragazzo effettivamente obeso seduto due file davanti. Non funziona più niente, il medico parla, i ragazzi non ascoltano più e quasi mi spavento nel pensare che in fondo questa sia la reazione più naturale possibile. L’incontro termina.

Mentre torno in classe e mi lascio sorpassare dalla fiumana degli studenti mi viene in soccorso un insegnamento che mi diede addirittura il mio maestro, ai tempi della scuola elementare, e che negli anni ho fatto mio: «Alle grandi domande, bisogna dare la dignità delle grandi risposte». Penso ai ragazzi, penso alle sacrosante informazioni che il medico ha dato e che la scuola gli ha giustamente permesso di dare.

Eppure il pensiero è inchiodato al quel «che cosa dovremmo fare oggi noi ragazzi prof?». Già, che cosa dovrebbero fare questi ragazzi oggi? Che cosa dovrebbero fare, che cosa dovrebbero essere questi ragazzi per non accettare solo la via facile della pulsione, di qualunque tipo essa sia, per dare forma e sostanza al vuoto che li circonda? Chi glielo deve insegnare? Chi li dovrebbe orientare verso la giusta direzione? Chi dovrebbe suscitare quella voglia per una vita che sia degna e non si accontenti della mediocrità dei desideri con le gambe corte? Mi fermo e osservo.

La risposta è tutta intorno a me, si apre di nuovo ai miei occhi: è lo spazio della scuola, dell’educazione, del luogo dove si insegna anzitutto l’essere per costruire il fare. «Che cosa dovremmo fare oggi noi ragazzi prof?». È quella la domanda che mi riguarda: sta a me, sta a noi. A tra quindici giorni.

Roberto Contu